La genesi del quadro di Tiziano oggi noto come La Festa di Venere è ben documentata. L’artista veneziano lo eseguì tra il 1518 e il 1519 per il “Camerino d’Alabastro” del Duca Alfonso d’Este di Ferrara, e lì fu esposto accanto ad altri dipinti: di Giovanni Bellini, di Dosso Dossi e dello stesso Tiziano.
Quest’ultima – ed è fatto ugualmente noto – ebbe come punto di partenza una celebre ecfrasi di Filostrato, il quale nel sesto capitolo della sua opera intitolata Eikones (Immagini), III secolo d. C., fece appello a tutto il suo talento per descrivere un quadro (di fantasia o realmente esistito) intitolato Erotes (Degli Amori). È probabile che sia stato lo stesso Duca estense a mettere a disposizione di Tiziano una traduzione italiana del testo[i], di cui l’artista si servì nell’ambito di un complesso paragone a più elementi. Nell’idea del Duca e negli intendimenti di Tiziano il “Camerino d’Alabastro” di Ferrara avrebbe dovuto sopravanzare, se possibile, le pinacoteche degli antichi (qui, la Galleria napoletana descritta da Filostrato nel suo testo), mentre, da parte sua, il quadro degli Amori avrebbe dovuto impegnarsi in una competizione artistica complessa e tale da poter essere seguita almeno su tre diversi livelli. Doveva porsi in concorrenza con gli altri quadri presenti nel Camerino (e prima di ogni altro probabilmente con la Festa degli Dei del già anziano ma geniale Giovanni Bellini) e resistere alla sfida lanciata dall’ecfrasi di Filostrato, che con dovizia di particolari descriveva una vetta della pittura antica cercando, da un lato, di superare quel capolavoro invisibile e, dall’altro, la prosa bella e solenne che lo evocava.
È proprio quest’ultimo punto che formerà il nocciolo della mia lezione.