Dario Mangano
Docente di Semiotica e Coordinatore dei Corsi di Scienze della Comunicazione
Università degli Studi di Palermo
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Email: dario.mangano@unipa.it
Abstract
L’archeologia, nella sua vulgata, è fatta di reperti. Artefatti materiali che dovrebbero rimandare alla società che li ha realizzati, muti testimoni in grado, almeno per gli specialisti, di significare un intero sistema di vita. Troppo spesso, tuttavia, tali testimoni materiali finiscono per avere un senso diverso per i contemporanei. È l’archeologia-spettacolo delle mummie, dei tesori e delle maestose architetture davanti alle quali la meraviglia si lega a valori affatto contemporanei come quello economico o tecnico. Questa archeologia funziona. È affascinante, crea reddito e intorno a essa nascono mostre e musei. Opere spesso ardite, realizzate da star del design che, con il loro nome, aggiungono un valore ulteriore all’operazione. Quando tutto questo accade è facile che si finisca per dimenticare la vera ragione di qualunque scavo archeologico: imparare qualcosa sul nostro passato per capire il nostro presente. Lo sguardo dell’archeologia, quando è intesa bene, è sempre strabico: con un occhio guarda al passato, ma con l’altro al presente, se non addirittura al futuro.
Cosa accade quando uno scavo offre pochi reperti spettacolari e molte informazioni sul nostro presente e sul futuro? Come è possibile rendere appetibile per il grande pubblico un museo che esce fuori dai normali criteri di spettacolarità? Ma soprattutto, in tempo di crisi, come convincere gli investitori che è possibile generare profitto da un’impresa che non ricalca ciò cui sono abituati? L’unico modo per farlo è ripartire dai reperti, dal loro senso, che prima di ogni cosa è dato dalle storie che sono in grado di raccontare. La narrazione si configura come la base del valore per così dire “assoluto” del reperto, ma anche come l’origine della sua valenza per la contemporaneità e dunque dell’efficacia di qualunque operazione di divulgazione.
Il nostro intervento mostrerà, a partire dall’analisi del caso del sito archeologico di Arslantepe in Turchia (letteralmente “la collina dei leoni”), oggetto di uno dei Grandi Scavi dell’Università di Roma La Sapienza, in che modo la semiotica possa avere un ruolo decisivo nella costruzione dell’esperienza di fruizione di un sito preistorico.